lunedì 15 dicembre 2014

James Maddock - The Green (2014 - Appaloosa / IRD)

Ha saputo aspettare per trovare il tempo giusto, il momento adatto per scoprire le sue carte e svelare al mondo il suo talento. Di natali inglesi, James Maddock si trasferisce a New York per seguire le ragioni del cuore e una ragazza di cui è innamorato. Mette radici nel Village, suona spesso nei suoi locali e assorbe la magia del luogo che poi trasferirà in molte canzoni a venire. Il suo nome comincia a circolare fino ad ottenere un contratto nientemeno che con la Columbia. Con i Wood, la sua prima band, firma Songs from Stamford Hill il cui singolo Stay You finisce nella colonna sonora della serie televisiva Dawson’s Creek e Never a Day apre quella del film Serendipity (Quando l’amore è magia) in compagnia, lo ricordiamo, di un altro inglese, anzi irlandese, affascinato dall’America, tale Bap Kennedy che come Maddock lascerà il segno nel mondo del songwriting. La strada è spianata, il successo sembra alle porte, invece la storia d’amore finisce e il nostro smette per nove lunghi anni di pubblicare dischi, continuando però a suonare, ad accumulare storie e a maturare quella sensibilità musicale che esploderà prorompente nel 2009 con l’eccellente Sunrise on Avenue C. e un pugno di ballate che grondano di quell’aura romantica e poetica che abbiamo amato in alcuni dei più bei dischi nati nella New York dei primi seventies. Un miraclo di scrittura che si esalta anche nel seguente Live at Rockwood Music Hall che di Sunrise ripropone dal vivo la maggior parte di brani. Maddock è un autore di razza e la sua vena si riconferma in Wake up and dream (al suo interno la gemma Beatiful Now composta a quattro mani con Mike Scott dei Waterboys) e in Another Life, penultimo capitolo di un songbook ormai ricco di episodi importanti.

Eccoci quindi a The green, fresco di stampa per i tipi della Appaloosa Records, encomiabile etichetta che quest’anno ha dato voce, con grande lungimiranza, ad una serie di artisti davvero molto validi. Il titolo prende spunto dal colore del biglietto verde per antonomasia, il dollaro, che, come l’euro, sta inesorabilmente sparendo dalle nostre tasche. “…vedo Peter Pan negli occhi dell’uomo di latta, quando si inginocchia nella pioggia, spingendo il suo carrello lungo la corsia, cercando il grano”. La title track entra subito in medias res e affronta la questione dalla parte di chi vuole reagire e non farsi sconfiggere da un sistema che ci spinge a competere in una guerra di cui abbiamo perso di vista lo scopo. “Non sono un leader, non sono un credente, sono un combattente, quello che accende il fuoco. Armerò le barricate rimanendo al tuo fianco fino alla fine”. Se l’intro, affidato alla tastiera e ad un arpeggio di chitarra su cui si posa la voce roca di Maddock, suggerisce inizialmente un approccio confidenziale e intimista al brano, presto si accende la miccia di un rock carico di sonorità elettriche il cui asse è rivolto ad un mainstream d’annata ma decisamente efficace.

sabato 15 novembre 2014

La Rosa Tatuata – Scarpe (2014 – Club De Musique / IRD)

Come la madeleine inzuppata nel tè fece riaffiorare in Proust i ricordi dell’infanzia, così l’audiocassetta raffigurata in copertina ha risvegliato in me i bei tempi andati (ogni riferimento ad un brano del disco non è assolutamente casuale) quando, con fare carbonaro, facevamo girare tra amici le registrazioni fruscianti degli LP che non riuscivamo ad acquistare. L’era digitale ha spazzato via questo modo di fruire la musica ed al posto delle mitiche C60 ci dobbiamo ora accontentare di playlist immateriali e della musica liquida che toglie gran parte del piacere al rituale dell’ascolto. Un fascino perduto che la praticità delle moderne tecnologie non è più in grado di riprodurre. Anche la concisa precisione del titolo rimanda alla fisicità di un modo particolarmente intenso di intendere il rock, materia viva e pulsante, e anticipa lo spirito dei testi che si sporcano di vita e si calano nella realtà per gustarne il sapore, come chi calpesta l’asfalto profumato di pioggia dopo un temporale e percorre sentieri al confine di terre segnate da carcasse arrugginite, lambite da un vento tiepido, impregnato di sale, che corre veloce. Titolo e copertina dicono quindi già molto del contenuto e fanno intuire che il cammino del gruppo inizi da lontano e i suoi membri abbiano molto da raccontare. 

La storia de La Rosa Tatuata parte infatti nel 1992 quando il gruppo comincia a calpestare i palchi genovesi, ed attraversa oltre vent’anni di rock indipendente. Anni vissuti da protagonisti con cinque album pubblicati e le collaborazioni eccellenti con artisti del calibro di Massimo Bubola, Paolo Bonfanti e i Gang, per non dire dei tanti concerti aperti per Willy DeVille, Dan Stuart e i Modena City Ramblers. Non è passata invano la lunga attesa che ci separa dalla pubblicazione di Caino, l’album che nel 2006 fruttò loro grandi consensi critici e fece man bassa di riconoscimenti con l’assegnazione di premi prestigiosi tra cui il MEI e la Targa Argento SIAE. Giorgio Ravera (voce e chitarra), Massimiliano Di Fraia (batteria), Nicola Bruno (basso), Massimo Olivieri (chitarra), Filippo Sarti (sax) e Andrea Manuelli (tastiere) tornano più in forma che mai con questo nuovo progetto discografico che riassume il patrimonio umano e il bagaglio d’esperienza accumulati nel corso della loro lunga militanza sulla scena musicale italiana. Nel solco di altri esempi illustri si sono ritirati in un vecchio cascinale nel basso piemonte (chissà se anche lui dipinto di rosa come lo scantinato di West Saugerties) e hanno registrato Scarpe in pochissimi giorni, con l’intento (riuscito) di conservare intatta l’urgenza espressiva e il fascino della presa diretta, una sorta di Nebraska elettrico che ritocchi e sovraincisioni avrebbero potuto guastare.

Lucinda Williams - Down where the spirit meets the bone (2014 - Highway 20 Records)

Quando tutto brucia in fretta e la folle corsa all’inseguimento dell’ultima novità attira nella sua trappola il povero ascoltatore bombardato da una copiosa messe di uscite, la scelta di pubblicare un corposo doppio album potrebbe sembrare azzardata e intimorire con la sua pressante richiesta di attenzione. Se la velocità regna ormai incontrastata in ogni nostra attività, rivendicare calma e ponderazione diventa un atto coraggioso e trasgressivo. Allora forza! Prendetevi il tempo necessario e immergetevi in questo disco come fareste con un buon romanzo: la lettura vi conquisterà pagina dopo pagina a tal punto da desiderare che la storia non abbia mai fine.

La Williams (e qui veniamo a uno dei punti nodali delle sue qualità artistiche) ha in dono un vero talento da narratrice, semplice e diretta nella scrittura e molto profonda nello sguardo rivolto ai suoi personaggi, talento che solo i grandi possono dire di avere. Cita spesso tra le sue principali fonti d’ispirazione la grande scrittrice americana Flannery O’Connor, maestra del Gotico Sudista, il cui insegnamento le è stato sicuramente prezioso nello scavo psicologico di una umanità dolente, tormentata da affanni e disillusioni, ritratta nelle tinte oscure di una spiritualità in cerca di riscatto. Secondo la O’Connor il racconto è una forma narrativa in cui contano solo le azioni, i pensieri, l’ambiente in cui si muovono i protagonisti, senza bisogno di alcun intervento diretto dell’autore, che si deve limitare alla mera esposizione dei fatti; così facendo, il racconto diventa un’unità drammatica autosufficiente, recante in sé il suo significato. L’arte del songwriting ha un’arma in più: unisce la musica alla forza delle parole e, quando coglie nel segno, ha effetti sorprendenti. Un risultato che Lucinda Williams ottiene facilmente con questa stupefacente raccolta di canzoni, toccando la vetta più alta della sua carriera, già ricca di soddisfazioni e di opere di notevole valore che l’hanno proiettata ai vertici della canzone d’autore americana. Down where the spirit meets the bone è il suo disco più importante e con esso si guadagna di diritto il titolo di miglior rockeuse in circolazione!

L’anima si incarna in quel mistero chiamato uomo, il cuore trafitto reclama giustizia e compassione. Compassione, ecco la parola chiave! Un segno misterioso del non detto, del non visto, sentimento da offrire anche a chi non lo chiede. I versi del poeta Miller Williams, padre di Lucinda, da lei trasposti in musica, aprono questo fantastico viaggio e danno senso compiuto al resto del racconto, illuminandolo di una spiritualità carnale molto sentita e partecipata dall’autrice che si esibisce in una prova vocale di grande forza ed effetto. La voce sofferta, roca, malinconica, accompagnata dalla sola chitarra acustica, rende alla perfezione la volontà della Williams di farsi portavoce del dolore altrui sublimando la pietas rivolta a tutti gli uomini, indistintamente. Le parole del padre le devono stare molto a cuore se già alcune righe del poema erano state riportate sulla copertina di West, l’album più vicino a quest’ultimo nel tenore generale, in cui aveva affrontato lo smarrimento conseguente alla perdita della madre. “They still remain my only companion, Loyal and true to the very end, They’ll never ever completely abandon, Ever give up the paper and the pen.” Così cantava in Words e le parole sono riemerse in superficie ed hanno trovato la via attraverso il canto.





Track List:

Compassion
Protection
Burning Bridges
East side of town
West Memphis
Cold day in hell
Foolishness
Wrong number
Stand right by each other
It’s gonna rain
Something wicked this way comes
Big mess
When I look at the world
Walk on
Temporary nature (of any precious thing)
Everything but the truth
This old heartache
Stowaway in your heart
One more day
Magnolia

PHIL CODY – BUSCADERO DAY – Pusiano (Co) 27 Luglio 2014

Articolo pubblicato sul Buscadero n. 371 Ottobre 2014

Mancava dall’Italia da troppo tempo, quando, sulla scia di The sons of the intemperance offering, il memorabile debutto del 1996 , e il successivo Big slow mover, era sbarcato nel nostro paese lasciando un segno indelebile nel cuore di molti appasionati. Phil Cody è un personaggio schivo, lontano dalla ribalta, autore non molto prolifico, che aveva fatto quasi perdere le sue tracce limitandosi a qualche sporadica autoproduzione. Fortunatamente lo scorso anno ha deciso di adempiere alla promessa fatta all’amico e mentore Warren Zevon di mantenere viva la fiamma della sua musica. E’ nato così Cody sings Zevon, intenso omaggio al grande songwriter californiano dal cui repertorio ha scelto dodici canzoni che, con grande intelligenza, ha spogliato del superfluo riconducendole ad una scarna essenzialità illuminata dall’intima visione di una delle personalità più forti del rock d’autore. C’era quindi più di una ragione per attendere con grande curiosità e trepidazione il ritorno di un autore che avevo molto amato e che desideravo riascoltare dal vivo dopo anni di silenzio. L’attesa non è stata vana perché l’esibizione di Cody alla due giorni buscaderiana ha colto nel segno, non solo appagando pienamente ogni mia aspettativa, ma regalandomi anche alcuni momenti di forte coinvolgimento emotivo. Tutto è filato per il verso giusto e la serata si è svolta all’insegna della grande musica, quella che sgorga direttamente dal cuore. Un concerto che ho apprezzato moltissimo soprattutto per l’onestà e la sincerità con cui Cody ha riletto i classici zevoniani, senza sbavature, concentrato esclusivamente sul nucleo stesso dei brani che ha saputo rendere con passione. 

Appena salito sul palco, jeans scuri e gilet, è apparso un po’ intimidito, ma, una volta imbracciata la chitarra e dato il via alla band, la calorosa accoglienza del pubblico lo ha sciolto, instaurando subito quel rapporto di empatia con i presenti che sarebbe stato la chiave di volta di un incontro speciale. Ad accompagnarlo gli stessi musicisti del suo primo tour italiano, cioè i bravi Steve McCormick alla chitarra (fedele amico e produttore dell’ultimo disco), Roger Len Smith al basso e Brian Smitty Smith alla batteria. Naturalmente, a fare la parte del leone, le riletture di Zevon, che on-stage hanno acquisito maggior vigore elettrico rispetto al disco, pur mantenendone la stessa carica evocativa. La voce sofferta e tagliente di Cody, che a tratti si fa malinconica, ha donato loro un taglio particolare e le trame elettroacustiche tessute dalla band intorno a lui hanno colorato con bravura e fantasia ogni passaggio strumentale. E’ un punto di vista significativamente personale che, a conti fatti, regge l’impegnativo confronto con il rock grintoso di Mr. Bad Example. Una scaletta da brividi che da Boom Boom Mancini a Mutineer, passando per i due gioielli Carmelita e Splendid isolation, non ha dimenticato di proporre alcune perle del passato prossimo del pronipote di Buffalo Bill come Soldier e Standing invitation.

Il momento magico della serata è arrivato alla conclusione del set, quando Cody, risalito da solo sul palco, ha spiegato le ragioni del tributo al suo mentore introducendo Heartache spoken here. Poche parole per ricordare l’amico ed esprimere il desiderio che l’eredità del cantastorie californiano continui a scaldare i cuori, poi gli arpeggi dell’acustica cominciano a vibrare nella notte di Pusiano e una preghiera sommessa si libera nell’aria: “When I was young the sky was filled with stars, I watched them burn out one by one”, come non alzare lo sguardo vero l’alto, “I know a thing or two about heartbreak and tears, so come on down we'll talk about it, heartache spoken here”, già ora la commozione è grande, “Little darlin' if you need a helping hand, if you need someone, you can count on me, and I will understand”, a questo punto avevo gli occhi lucidi, gonfi d’emozione. In quell’istante ho avuto ben presente il senso della nostra musica e di cosa voglia dire sentirsi parte di una comunità e condividere i propri sentimenti con altre persone che sono li, come te, a godere di ogni singolo istante, di ogni singola nota. Sono convinto che in quel momento Warren ci abbia visto, ed abbia sorriso, e sia rimasto contento. I fantasmi di Woody Guthrie, di Townes Van Zandt, di Warren Zevon sono gli stessi che avrebbe evocato qualche giorno dopo Steve Earle, anche lui chitarra a tracolla a cantare, sottovoce, insieme a noi “So come back Woody Guthrie, come back to us now, tear your eyes from paradise and rise again somehow”. Non scorderò facilmente questi due giorni suggellati egregiamente da un Phil Cody particolarmente ispirato che ha saputo toccare le corde giuste nel solco di una tradizione che continua a rivitalizzarsi attraverso la voce di chi la sa amare con devozione.

Tom Gillam - Last Night on Earth (2014 - Blue Rose Records / IRD)

Titolo apocallitico, da orror movie anni ’50, quando gli ultracorpi invadevano la terra e il terrore scuoteva una sonnacchiosa cittadina sperduta nella provincia americana. Da queste small town di solito si ha voglia di fuggire per andare in cerca di fortuna e lasciarsi alle spalle la monotonia di una vita comune. Così è stato per Tom Gillam, originario del New Jersey e cresciuto a Philadelphia, che ha trovato nel Texas l’humus ideale per le sue scorribande musicali e il trampolino di lancio per una carriera che lo ha visto approdare, dopo tre album pubblicati negli States, alla scuderia della Blue Rose Records. 


L’etichetta tedesca è un marchio di qualità e un importante biglietto da visita per molti musicisti d’oltreoceano che spesso trovano proprio in Europa il riconoscimento che meritano. Gillam ne è la prova, con sette album solisti e quattro come membro degli U.S. Rails, il supergruppo dove converge il talento di cinque artisti, ciascuno dei quali dotato di una spiccata personalità, la cui sinergia è uno degli esempi più belli di Americana cui abbia assistito di recente. Quando i Rails, lo scorso Maggio, hanno suonato al Circolone di Legnano, l’ho conosciuto di persona ed ho scoperto non solo un chitarrista dall’energia trascinante, ma anche una persona simpatica e cordiale che sul palco diverte e si diverte sfoggiando al tempo stesso una brillante tecnica strumentale. Qualità che ho ritrovato, seppur in un contesto diverso, in Last night on earth, testimonianza sonora di uno show acustico tenuto durante le pause del tour in un piccolo locale di Barrington nel New Jersey.



Track List:

Outside the lines
Till the morning
Abby & Andy
Last night on earth
Rainbow girl
Hand me down blues
Where is Bobby Gentry
The train, the rain & other things
Goodbye goodtime
Right here right now

Michael McDermott & The Westies - West Side Stories (2014 - Appaloosa / IRD)

“E’ stato tanto tempo fa, ma mi sembra ieri. Ero così giù, ero completamente fuori strada. Quando arrivai a Broadway cominciai a capire che queste sono tutte cicatrici di un’altra vita.” (Scars from another life) 

Non è stata una passeggiata la vita e la carriera di Michael McDermott, songwriter americano giunto forse troppo precocemente al grande successo nel 1991 con 620 W. Surf, bruciante album d’esordio rimasto scolpito nel cuore di tanti appassionati e divenuto inevitabile pietra di paragone di ogni suo lavoro successivo. Troppi gli accostamenti scomodi (Dylan, Springsteen, Van Morrison) che frenano anziché aiutare, troppe le aspettative, le tentazioni e le responsabilità caricate sulle spalle di un ragazzo che muoveva i primi passi in un mondo (quello musicale) che, mentre dispensa onori, rischia anche di dimenticare in fretta. Altri ci hanno lasciato le penne senza più riuscire a rimanere in carreggiata (penso a Will T. Massey che esordì lo stesso anno con un’altrettanto strabiliante opera prima, mai più ripresosi completamente dalla sbornia della notorietà). Il nostro Michael invece ha resistito con caparbietà e, pur tra mille difficoltà, ha continuato a comporre la sua musica, a pubblicare dischi, insomma a crederci, e non ha permesso che il sogno si spezzasse. Con una buona dose di autoironia è anche riuscito a scherzarci sopra, come nel video di Hit me back (brano tratto dall’omonimo disco di un paio d’anni fa) quando ha vestito i panni di un pugile messo a ko da un avversario più forte di lui, metafora di una vita passata a schivare colpi e rimarginare ferite. Si dice che il tempo è un guaritore e che dopo aver toccato il fondo si può solo risalire. E’ così davvero: rimangono le sole cicatrici, con tutto il loro carico di esperienza e ricordi, e la possibilità della rinascita. Michael ce l’ha fatta a ricomporre la sua vita, complice l’incontro con la brava musicista Heater Horton (poi divenuta sua moglie) che gli ha regalato quella stabilità di affetti di cui aveva estremo bisogno per ritrovare serenità, stimoli positivi e una rinnovata ispirazione.



Track List:

Hell’s Kitchen
Trains
Say It…
Death
Bars
Rosie
Fallen
Five Leaf
Still
Gun (demo)
Silent

Phil Cody – Cody sings Zevon (2014 – Appaloosa Records/IRD)

Quando l’ombra stava scendendo inesorabile sulla sua vita, Warren Zevon trovò la forza di comporre un ultimo, struggente album. The Wind è stato una sorta di testamento, un’ultima rimpatriata con gli amici per prepararsi al viaggio finale. Si accomiatò con compostezza e dignità come solo i grandi sanno fare. “Tienimi nel cuore ancora un po’” sono le sue ultime parole, cantate in forma di preghiera, quasi avesse paura di essere dimenticato. Naturalmente ciò è impossibile, tanto l’uomo e l’artista hanno significato per la musica. Le sue canzoni sono un patrimonio da tutelare, un’eredità da custodire gelosamente e conservare con amore.

Ecco ciò che ha fatto Phil Cody: un atto d’amore incondizionato nei confronti dell’amico con cui ha condiviso una parte di cammino, che è stato fonte di ispirazione ed esempio di coerenza e indipendenza artistica. A Cody sta a cuore innanzitutto catturare l’artista conosciuto da vicino, l’uomo schivo, lontano dai riflettori, il songwriter acuto e sopraffino che sapeva cogliere nei suoi personaggi stralci di vita e istantanee con tale immediatezza da renderli memorabili. Accantonato quindi l’immaginario stereotipato del ribelle, vengono invece messi in luce gli aspetti meno appariscenti, ma più veri, di un artista unico e inimitabile. Il folk-singer, non la rockstar, dice Cody, Nebraska non Born to run. Il ritratto che ne esce coglie l’essenza del pensiero musicale di Zevon. Non cerca il confronto ne tantomeno l’imitazione (da cui ne sarebbe uscito sconfitto), quanto piuttosto la via dell’interpretazione personale che, senza particolari stravolgimenti, va dritta al dunque, senza fronzoli, com’era Zevon. Una bella sfida, che Cody ha colto con intelligenza. Il pianoforte, le chitarre elettriche, l’impeto rock delle canzoni originali, lasciano ora spazio ad una parca strumentazione acustica su cui si innesta la voce sofferta del loner, traducendone in linguaggio semplice, ma estremamente efficace, lo stile. Qui sta il fascino del disco, nell’atmosfera fumosa e rarefatta di un piccolo club dove si radunano gli amici per imbracciare la chitarra e lasciare che la musica sgorghi liberamente dal cuore.



Paolo Saporiti – Paolo Saporiti (2014 – Orange Home Records)

Mi piacciono i dischi che suscitano forti emozioni. Mi piacciono i dischi che costringono a prendere posizione, a scegliere da che parte stare, che in nessuna maniera lasciano indifferenti e puntano dritto all’estremo coinvolgimento dei sensi. Dischi che regalano un’esperienza unica e totale, che non fanno sconti e impongono a chi li ascolta un rapporto esclusivo. Puoi tanto amarli quanto odiarli dischi così, di certo lasciano in te un segno indelebile. Se li ami è perché resti affascinato dai loro suoni, dai loro colori, dalla loro atmosfera; se li odi è perché ti mettono all’angolo e ti costringono a fare i conti con te stesso. Vanno in profondità per raggiungere anche le corde più nascoste del tuo intimo. Quando tutto ciò si avvera, come nel caso in questione, la fascinazione che ne deriva è per me pressoché immediata!
Paolo Saporiti, autore milanese giunto, con questo, al quinto album, non è nuovo ad accadimenti del genere. Due anni fa L’ultimo ricatto era apparso l’estremo atto di libertà di un artista intento ad esprimere la sua creatività senza vincoli, alla ricerca di un proprio linguaggio che gli permettesse di esplorare le infinite possibilità offerte da un uso non comune della voce spinta al limite di un’avanguardia sonora magistralmente diretta dall’incontro con Xabier Iriondo (Afterhours). Il passo è ora definitivamente compiuto e la consapevolezza raggiunta da Saporiti nell’utilizzo sia dei propri mezzi vocali che della sua abilità compositiva concretizza un percorso che trova qui la massima espressione.

Evidentemente spinto da una gran voglia di comunicare e dall’esigenza di eliminare ogni possibile barriera tra sé e l’ascoltatore, Saporiti sceglie, per la prima volta, di comporre in italiano. Ci troviamo così di fronte ad un artista che si mette completamente a nudo e vive in prima persona l’ansia di amare e di farsi amare, il desiderio di annularsi e rinascere nell’altro, sempre combattuto tra due poli che lo attraggono e lo respingono allo stesso tempo. Non si risparmia in questo continuo gioco degli opposti e da ciò deriva la forza con cui comunica i suoi sentimenti. Questa dualità è rispecchiata sia dai testi, sempre contraddistinti da notevole eleganza formale e capacità immaginifica, sia dalla musica, sottesa tra la mai sopita indole cantautorale e la prorompente tensione sperimentale, il cui linguaggio è risolto in una modalità unica e assolutamente originale. L’intesa raggiunta con Iriondo, chiamato anche questa volta ad arrangiare i brani e a rivestirli di suoni, è il valore aggiunto che rende unica la temperie del disco: insieme i due sanno piegare la forma canzone secondo il loro volere e calibrano con estrema precisione ogni intervento, sempre funzionale e coerente, senza mai scadere nel noise fine a se stesso. Saporiti dimostra perciò di avere le idee molto chiare e qui raggiunge la sua piena maturità artistica. 


Tracklist:
Come venire al mondo
Io non ho pietà
Cenere
Sangue
Come Hitler
L’effetto indesiderato
Ho bisogno di te
Erica
In un mondo migliore
Caro Presidente
P:S:

Alessandro Battistini - Cosmic Sessions (2014 - Club de Musique / IRD)

Al timone del fantastico vascello illustrato in copertina, Alessandro Battistini, leader e autore dei Mojo Filter, è salpato per un inedito viaggio interstellare alla volta di lidi rimasti ancora inesplorati dall’acclamata rock band bergamasca paladina di un vintage rock dal taglio elettrico e viscerale. I tre ottimi album finora pubblicati dal gruppo e l’intensità dei concerti cui ho avuto modo di assistere, mi avevano fatto apprezzare da subito le sue indiscutibili qualità artistiche e non ho quindi avuto alcun dubbio nell’attendermi grandi cose all’annuncio della sua prima prova solista. L’attesa naturalmente non è stata vana, anzi l’esito si è rivelato superiore all’aspettativa! Mi trovo così a parlare di un disco squisitamente composto, suonato e prodotto, che mi ha catturato sin dal primo ascolto, tanto da lasciarmi a bocca aperta di fronte alla capacità di coinvolgimento di un Battistini particolarmente ispirato. Di sicuro è riuscito a stupirmi nel presentare un lato della sua creatività che non conoscevo e che fortunatamente è venuto alla luce. Mi ha positivamente spiazzato lasciando la via maestra percorsa con i Mojo Filter per avventurarsi lungo quelle strade blu che da sempre forniscono linfa vitale al rock più genuino; una scelta corraggiosa e intelligente che gli ha permesso di allargare la prospettiva del proprio linguaggio.
Le Cosmic Sessions cambiano rotta e spostano la barra in direzione di un folk rock acustico innervato da striature psichedeliche decisamente interessante. Cambia anche l’orizzonte temporale, ora rivolto ai sixities e a una forma musicale che privilegia i toni distesi di una jam vissuta in assoluta scioltezza. Non sono più le sole chitarre elettriche a tenere le fila, ma è tutto l’armamentario di mandolini, banjo, pedal steel e percussioni a offrire una varietà e una ricercatezza strumentale di tutto rilievo da cui emerge con forza e incisività la voce di Battistini, dotata di una notevole gamma espressiva e di una carica tale da essere contagiosa.
I trenta minuti del disco sono un condensato di felici intuizioni che svelano tante piccole gemme composte in un quadro assolutamente perfetto in cui ogni singolo passaggio strumentale è cesellato con estrema cura. Battistini ha il dono della sintesi: la durata relativamente breve del disco va a tutto vantaggio della qualità dei contenuti e della facilità d’ascolto, un pregio da apprezzare perché questa capacità è una dote non comune. 





Traclist: 


01 Nothing More To Say
02 Staring At Your Splendor
03 Fill My Soul
04 The Inner Side
05 Home
06 The Wise Rabbit
(An Homage To Mrs.Grace)
A The Descent
B Cosmic Souls
C Nibiru’s Dawn
07 All Of Those Rainy Days
08 Walking The Dog
09 The Old Chair

10 Xmas Time’s Outside My Door (Bonus Track)

domenica 9 marzo 2014

Blue Rodeo - In Our Nature (2013 - Blue Rose / IRD)

Sono sincero, ho sempre amato la musica dei canadesi Blue Rodeo e li considero uno dei gruppi fondamentali per la comprensione del genere americana. Autori di opere seminali quando il fenomeno no depression non era ancora esploso e si cominciava appena a parlare di alt-country e roots music, hanno costruito la loro carriera rimanendo sempre fedeli a se stessi e alla formula che li ha portati al successo. Considerati, a ragione, figli naturali dei conterranei The Band, non solo ovviamente per semplice appartenenza geografica, raccolgono il testimone lasciato in eredità dal country rock degli anni settanta e sviluppano il loro personale linguaggio musicale sulla base di una sapiente abilità nell’unire grande facilità di scrittura e perizia strumentale al gusto per l’armonia vocale e la melodia, tanto che i loro brani sono sempre estremamente gradevoli all’ascolto. Ciò che li contraddistingue è il drive elettroacustico trainato dalle chitarre, arricchito dall’uso raffinato delle tastiere e declinato secondo una sensibilità pop (intesa nel suo senso migliore) misurata e di gran classe, che ha permesso loro di confezionare opere eccellenti. Una formula apparentemente semplice, ma assolutamente efficace, che ci ha regalato, nei primi anni novanta, capolavori quali Lost together e Five days in July, pietre miliari di un suono e di un modo d’intendere la musica che di li a poco sarebbe sfociato in ciò che oggi accomuniamo con il termine americana



A ventisei anni esatti di distanza dall’esordio di Outskirts e a quattro dal doppio The things we left behind (disco di buon livello, ma un po’ troppo dispersivo), i Blue Rodeo ritornano alla grande e pubblicano il tredicesimo lavoro di studio, dando ancora una volta prova di una creatività mai sfiorita, anzi rinvigorita e maturata nel corso del tempo.

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Traclist:

New Morning Sun
Wondering
Over Me
Never Too Late
When The Truth Comes Out
Paradise
Tell Me Again
Mattawa
Made Your Mind Up
In Our Nature
In The Darkness
You Should Know
Tara’s Blues

Out Of The Blue 

domenica 26 gennaio 2014

Eric Bibb - Jericho Road (2013 - Dixiefrog)




























La notte prima di morire, Martin Luther King ci ha esortato a seguire l’esempio del Buon Samaritano, lasciando in eredità una regola di vita che ciascuno di noi dovrebbe far propria: “Nessuno può salvarsi senza prima salvare gli altri”.  Le parole del reverendo, ricordate nella bella nota introduttiva, la parabola evangelica che le ha ispirate, il senso profondo di generosità e fratellanza che trasmettono, sono il fertile terreno di coltura da cui è nato Jericho Road, l’ultimo lavoro del chitarrista newyorkese, culmine di un processo creativo “che ha richiesto molte lune” per realizzarsi.
Afroamericano di nascita, Eric Bibb è cittadino del mondo per vocazione! Infatti questo signore dai modi gentili ancora giovanissimo si è traferito in Europa, per stabilirsi prima a Parigi e poi ad Helsinki, dove attualmente vive. La sua lunga e invidiabile carriera copre quattro decadi e i frequenti tour che ha instancabilmente intrapreso gli hanno permesso di entrare in contatto con le più disparate culture e di acquisire una visione delle vicende umane aperta e scevra di pregiudizi. Il milieu culturale in cui si è formato è quello di una famiglia di musicisti: il padre era un cantante di musical attivo nella scena folk dei primi anni ’60, lo zio nientedimeno che John Lewis, il pianista e compositore fondatore del Modern Jazz Quartet, il padrino l’attore e attivista Paul Robeson, mentre tra gli amici di famiglia spiccavano i nomi di Pete Seeger e Odetta. Narra un aneddoto che l’undicenne Eric potè addirittura beneficiare dei consigli di un certo Bob Dylan riguardo la tecnica chitarristica. Cresciuto in un simile ambiente, era perciò naturale che Bibb sviluppasse un amore incondizionato per la musica delle radici, in particolare per il blues, diventando nel corso degli anni uno dei principali esponenti della generazione che ha fatto da ponte tra i grandi bluesman formatisi prima della guerra e i nostri giorni, raccogliendo la sfida di traghettarlo verso il futuro. La sua musica perciò, pur mantenedo ben salde le radici nella tradizione, sa essere innovativa e accogliere al suo interno i suoni e i sapori della world music, del jazz e del soul in uno squisito intreccio di contaminazioni che la rendono decisamente moderna e accativante.

L’estrema sintesi di un percorso artistico sviluppatosi lungo l’arco di ben trentacinque album, giunge quindi a piena maturazione in Jericho Road, un’opera colta, raffinata ed elegante, pregevole nelle sue molteplici sfaccettaure, che racconta un artista ai vertici della produzione musicale contemporanea, latore di un messaggio positivo che, unito alle sue intrinseche qualità musicali, affascina e tocca il cuore!



t

Tracklist:


Drinkin’ Gourd
Freedom Train
Let the Mothers Step Up
Have a Heart
The Right Thing
Death Row Blues
Can’t Please Everybody
The Lord’s Work
With My Maker I Am One
They Know
She Got Mine
Good Like You
One Day At a Time
Bonus tracks:
Now
Nanibali