Articolo pubblicato sul Buscadero n. 371 Ottobre 2014
Mancava dall’Italia da troppo tempo, quando, sulla scia di The sons of the intemperance offering, il memorabile debutto del 1996 , e il successivo Big slow mover, era sbarcato nel nostro paese lasciando un segno indelebile nel cuore di molti appasionati. Phil Cody è un personaggio schivo, lontano dalla ribalta, autore non molto prolifico, che aveva fatto quasi perdere le sue tracce limitandosi a qualche sporadica autoproduzione. Fortunatamente lo scorso anno ha deciso di adempiere alla promessa fatta all’amico e mentore Warren Zevon di mantenere viva la fiamma della sua musica. E’ nato così Cody sings Zevon, intenso omaggio al grande songwriter californiano dal cui repertorio ha scelto dodici canzoni che, con grande intelligenza, ha spogliato del superfluo riconducendole ad una scarna essenzialità illuminata dall’intima visione di una delle personalità più forti del rock d’autore. C’era quindi più di una ragione per attendere con grande curiosità e trepidazione il ritorno di un autore che avevo molto amato e che desideravo riascoltare dal vivo dopo anni di silenzio. L’attesa non è stata vana perché l’esibizione di Cody alla due giorni buscaderiana ha colto nel segno, non solo appagando pienamente ogni mia aspettativa, ma regalandomi anche alcuni momenti di forte coinvolgimento emotivo. Tutto è filato per il verso giusto e la serata si è svolta all’insegna della grande musica, quella che sgorga direttamente dal cuore. Un concerto che ho apprezzato moltissimo soprattutto per l’onestà e la sincerità con cui Cody ha riletto i classici zevoniani, senza sbavature, concentrato esclusivamente sul nucleo stesso dei brani che ha saputo rendere con passione.
Appena salito sul palco, jeans scuri e gilet, è apparso un po’ intimidito, ma, una volta imbracciata la chitarra e dato il via alla band, la calorosa accoglienza del pubblico lo ha sciolto, instaurando subito quel rapporto di empatia con i presenti che sarebbe stato la chiave di volta di un incontro speciale. Ad accompagnarlo gli stessi musicisti del suo primo tour italiano, cioè i bravi Steve McCormick alla chitarra (fedele amico e produttore dell’ultimo disco), Roger Len Smith al basso e Brian Smitty Smith alla batteria. Naturalmente, a fare la parte del leone, le riletture di Zevon, che on-stage hanno acquisito maggior vigore elettrico rispetto al disco, pur mantenendone la stessa carica evocativa. La voce sofferta e tagliente di Cody, che a tratti si fa malinconica, ha donato loro un taglio particolare e le trame elettroacustiche tessute dalla band intorno a lui hanno colorato con bravura e fantasia ogni passaggio strumentale. E’ un punto di vista significativamente personale che, a conti fatti, regge l’impegnativo confronto con il rock grintoso di Mr. Bad Example. Una scaletta da brividi che da Boom Boom Mancini a Mutineer, passando per i due gioielli Carmelita e Splendid isolation, non ha dimenticato di proporre alcune perle del passato prossimo del pronipote di Buffalo Bill come Soldier e Standing invitation.
Il momento magico della serata è arrivato alla conclusione del set, quando Cody, risalito da solo sul palco, ha spiegato le ragioni del tributo al suo mentore introducendo Heartache spoken here. Poche parole per ricordare l’amico ed esprimere il desiderio che l’eredità del cantastorie californiano continui a scaldare i cuori, poi gli arpeggi dell’acustica cominciano a vibrare nella notte di Pusiano e una preghiera sommessa si libera nell’aria: “When I was young the sky was filled with stars, I watched them burn out one by one”, come non alzare lo sguardo vero l’alto, “I know a thing or two about heartbreak and tears, so come on down we'll talk about it, heartache spoken here”, già ora la commozione è grande, “Little darlin' if you need a helping hand, if you need someone, you can count on me, and I will understand”, a questo punto avevo gli occhi lucidi, gonfi d’emozione. In quell’istante ho avuto ben presente il senso della nostra musica e di cosa voglia dire sentirsi parte di una comunità e condividere i propri sentimenti con altre persone che sono li, come te, a godere di ogni singolo istante, di ogni singola nota. Sono convinto che in quel momento Warren ci abbia visto, ed abbia sorriso, e sia rimasto contento. I fantasmi di Woody Guthrie, di Townes Van Zandt, di Warren Zevon sono gli stessi che avrebbe evocato qualche giorno dopo Steve Earle, anche lui chitarra a tracolla a cantare, sottovoce, insieme a noi “So come back Woody Guthrie, come back to us now, tear your eyes from paradise and rise again somehow”. Non scorderò facilmente questi due giorni suggellati egregiamente da un Phil Cody particolarmente ispirato che ha saputo toccare le corde giuste nel solco di una tradizione che continua a rivitalizzarsi attraverso la voce di chi la sa amare con devozione.
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