martedì 11 dicembre 2012

Roberto Dell'Era - Carroponte - Sesto San Giovanni (Mi) - 2 Agosto 2012

Intervista realizzata per Just Kids da me e Massimo Miriani e pubblicata sul #1 (lo puoi sfogliare qui)


In occasione della rassegna musicale che si svolge al Carroponte di Sesto San Giovanni per tutto il periodo estivo, questa sera suona Roberto Dell’Era accompagnato dai Judas, cioè Rodrigo D’Erasmo (Violino e Chitarre), Milo Scaglioni ( Basso), Alessio Russo (Batteria) e Lino Gitto (Tastiere).

Con molta disponibilità e la simpatia che da sempre lo contraddistingue, Roberto ci concede una chiacchierata poco prima di salire sul palco.


Ciao Roberto, vuoi parlarci di “Colonna so­nora originale”, il tuo primo progetto soli­sta, che ancora promuovi a circa un anno dalla sua uscita?

Si, è un “never ending tour” finché non uscirà il mio prossimo disco! Intanto stasera abbiamo aggiunto due nuovi pezzi che non abbia­mo mai suonato dal vivo e che presentiamo in questa occasione.

Sei soddisfatto del riscontro che ha avuto?

Direi di si, tutto sommato al di là delle aspet­tative. Ho avuto molti consensi da parte del­le radio, è piaciuto molto, quindi mi ritengo molto soddisfatto. Il fatto di essere un mem­bro degli Afterhours mi ha permesso di apri­re qualche porta. Ciò in certi casi può essere un’arma a doppio taglio, in quanto potrei es­sere considerato il figlioccio di una band che ha una entità molto forte e potrebbe essere scontato il fatto che sono bravo solo perché faccio parte degli Afterhours, il che non è as­solutamente vero.

Infatti nel tuo progetto non vi è alcun rife­rimento musicale che possa ricondurre allo stile degli Afterhours. Ciò significa che è molto personale, dotato di una sensibilità completamente diversa da ciò che fai con il gruppo. La decisione di utilizzare uno sti­le riconducibile ad un sound sixties è stata una esigenza legata a questo progetto parti­colare oppure è il genere musicale che più preferisci e senti tuo?

E’ il tipo di suono che preferisco, anche se non lo ritengo neo-sessanta o super british. Lo ritengo il mio suono nuovo e attuale. Nell’immaginario culturale parlare di suono anni sessanta fa pensare a qualcosa di data­to, che appartiene al passato. per me invece è semplicemente un suono, come lo potrebbe essere l’hip-hop, che, anche se lo si ascolterà fra vent’anni non è detto che sarà considerato vecchio o datato. E’ un suono che gode di una sua entità ben specifica.


Vuoi parlarci dei tuoi esordi e del percor­so artistico prima di entrare a far parte degli Afterhours? Come e dove nasce Roberto Dell’Era arti­sticamente?

Ai tempi feci un corso di chitar­ra all’oratorio che frequentavo da piccolo, nel quale c’era un teatro che, come scoprii più tardi, veniva affittato e utilizzato dalla Ricor­di come sala di registrazione per i propri artisti. Ci lavorò anche Lucio Battisti! Ero refrattario alla scena musicale milanese, non mi piaceva nessuno e non avevo molti amici musicisti. Preferivo i negozi di dischi alle band, odiavo le sale prova, odiavo l’ambiente, insom­ma, mi stavano un po’ tutti sui co­glioni. Andai all’estero e stetti un anno in Irlanda, poi in Inghilterra. Mi liberò molto artisticamente e mi sentii perfettamente a mio agio in quella situazione, trovai intorno a me l’humus adatto a ciò che avevo in mente di fare. Cominciai a suo­nare in numerose band, tra le quali alcune importanti con l’aspettativa di fare il botto. Rimasi circa dieci anni lì e feci la mia gavetta.

Gli Afterhours hanno pubblicato a distanza di 4 anni dal precedente il loro nuovo lavoro, Padania, avviando di conseguenza un intenso tour. Come riesci a gestire i tuoi impegni soli­stici insieme a quelli con il gruppo?

E’ un vero delirio! Credo che quest’anno farò il record di concerti della mia vita… Ovviamente gli Afterhours hanno la precedenza assoluta, però avere un tour in progress ha limitato le mie possibilità di fare concerti in posti interes­santi, come i festival, dove la gente viene non solo per te ma segue un certo tipo di mondo musicale. Mi sono adattato ad altre situazioni che comunque mi hanno soddisfatto, e conti­nuo in tarda età a fare canzoni sui treni (ride).

Questo significa che c’è molta passione in quello che fai, non è semplicemente un mestiere. Si percepisce chiaramente che non sei un artista esordiente, alle prime armi, ma che possiedi un bagaglio di esperienza notevole.

Certo mi piacerebbe avere ancora vent’anni, nel senso che avrei molto più tempo davanti per portare a compimento altri progetti. Non credo però che a quell’età avrei potuto realizzare un lavoro del genere. Infatti la maturità raggiunta nel disco è frutto dell’esperienza acquisita nel tempo. In Italia è difficile per un artista di vent’anni possedere già l’esperien­za necessaria per mantenere il controllo di un lavoro così complesso sia dal punto di vista sonoro che da quello tecnico, in quanto non ci sono le condizioni per acquisire competenze necessarie.

Parlaci del “Cortometraggio” che hai realiz­zato per il brano Le parole?

Ho usato il termine “cortometraggio” in rela­zione al titolo del disco che è “Colonna sono­ra originale”. Ovviamente è un videoclip, ma mi piaceva l’idea di vederlo come un mini film di Roberto Dell’Era. E’ stata una avventura bellissima lavorare al video, prodotto insieme a Giorgina Pilozzi, che aveva proposto di fare una sorta di omaggio a “i 400 colpi” di Fran­cois Truffaut senza però creare riferimenti al film. Il piccolo Ian Sassanelli, il bimbo che ha recitato nel video, ha rappresentato il mio ­al­ter ego ed è stato bellissimo lavorare con lui.
E’ il primo lavoro in ambito cinematografica che abbiamo realizzato e mi ha soddisfatto molto, così come aver scelto il bianco e nero. Il corto è piaciuto moltissimo anche a tanta gente dell’ ambiente.

Suoni in tante situazioni diverse, in duo, con la band, da solo. Qual’é quella che preferi­sci?

Dal vivo non ho una preferenza particolare. Mi trovo bene sia con i Judas, che da solo o in duo con Rodrigo. Anzi, con Rod si è creata una bellissima intesa e mi piace molto suo­nare con lui, perché mi lascia molto spazio, capisce al volo le mie intenzioni e sa suppor­tarmi adeguatamente.

Progetti Futuri?

Sicuramente realizzerò un nuovo disco, ma non so ancora quando. Ho in cantiere molte idee, che al momento opportuno verranno sviluppate e vedranno sicuramente la luce.

lunedì 19 novembre 2012

Miami & The Groovers - Live al Circolone di Legnano - 9 novembre 2012


Foto di Fabio "Baio" Baietti
“Fino a quando in un venerdì sera di novembre il Circolone sarà così pieno, così rumoroso, così molesto, l’ultima band di rock’n’roll sarà sempre in giro, non si fermerà mai e non metterà mai la parola fine”. Le parole di Lorenzo Semprini usate per introdurre The last rock’n’roll band rendono perfettamente l’idea di cosa sia successo al Circolone di Legnano in occasione del concerto dei riminesi Miami & The Groovers tenutosi nell’ambito della rassegna Americana. Gli appuntamenti del ciclo sono diventati una piacevole abitudine per tutti gli amanti della musica d’oltre oceano che questa volta sono stati testimoni di una travolgente rock’n’roll night. Come era lecito aspettarsi, questa tappa del Good things tour ha portato in città uno dei più intensi show dal vivo cui è possibile assistere in Italia e l’attesa del folto pubblico, che ha accolto con grande entusiasmo la band, è stata ripagata con un set di due ore e mezza, adreanlinico e tiratissimo, che ha letteralmente conquistato tutti i presenti.


Foto di Fabio "Baio" Baietti

Foto di Fabio "Baio" Baietti




Always the same
Big mistake
On a night train 
Walkin’ all alone
Lost 
Audrey Hepburn’s smile 
Before your eyes 
Good things 
Waiting for me 
Love has no time 
Sliding doors
Tears are falling down 
Back in town 
Running down a dream 
Burning ground 
Under control 
Jewels and medicine 
Broken souls 
Postcards 
It’s getting late 
Rock’n’roll night 
Last r’n’r night 
Train in vain 
The ’59 sound
Point blank
Merry go round
We’re still alive



mercoledì 7 novembre 2012

Ila And The Happy Trees - Believe it (Mokili - 2012)

E’ possibile cambiare il mondo? Cosa si può fare per migliorare la realtà che ci circonda e, soprattutto, quali mezzi abbiamo a disposizione? Questi semplici interrogativi sicuramente ce li siamo già posti. Anche se non è sempre facile trovare le risposte giuste, non per questo dobbiamo scoraggiarci. Cominciamo dalle cose più semplici, dai piccoli gesti quotidiani, dalla nostra predisposizione d’animo. E’ questo il punto di partenza, credere in noi stessi, credere nelle cose che facciamo, credere nei nostri sogni. “Give me your dreams, I can change your life, I’ll build your new day, people can be better than they are, if you believe it.
Il secondo disco della cantautrice genovese Ila è una risposta sincera e spontanea a questi quesiti. Colmo di energia positiva, ha la leggerezza di un bicchiere di acqua fresca, fa pensare all’innocenza di un bambino che guarda le cose lasciandosi meravigliare da esse “Quando ero bambino ero in pace con il mondo, e giocavo a girotondo, quando ero bambino ero capace di creare, adesso provo ancora a volare. Forse è questo il segreto, lo abbiamo sotto gli occhi, “The meaning of life is everywhere, and you can  choose the way you wanna be”.


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lunedì 5 novembre 2012

Cheap Wine - Based on lies (Autoprodotto - 2012)

I Cheap Wine in quindici anni di carriera hanno compiuto passi da gigante. Si sono costruiti nel tempo una solida reputazione, basata su un’intensa attività live e sull’integrità della loro proposta. Sono artisti veri, non scendono a compromessi e si autoproducono con estrema professionalità. Possono contare su una grande credibilità, raggiunta con passione e determinazione, che li ha fatti diventare uno dei gruppi di punta del rock italiano, definizione tra l’altro limitativa, visto che non sfigurano assolutamente accanto ai più bei nomi della scena americana. A tre anni dal precendente lavoro in studio e dopo l’acclamato Stay alive, sanguigna testimonianza dei loro strepitosi concerti, la band dei fratelli Diamantini firma un album stupendo, senza ombra di dubbio il migliore dei nove finora pubblicati, ultimo di una serie in progressione continua. Naturale evoluzione della direzione già intrapresa da Spirits, che vedeva ridotta la componente elettrica a favore di momenti acustici ricchi di trame strumentali, Based on lies conferma la bontà di questa scelta. Ci troviamo perciò di fronte ad un raffinato rock d’autore in cui i testi giocano un ruolo di primo piano, decisamente cinematografici nel restituire immagini molto vivide delle storie raccontate, e la musica trova il giusto equilibrio tra ballate desertiche, ritmi swinganti e tipici anthem rock’n’roll.

mercoledì 24 ottobre 2012

Gianluca G-Fast Fasteni - Dancing with the freaks (La Fabbrica – 2011)

Questo articolo è stato pubblicato sulla webzine Just Kids
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Le note scarne di una chitarra acustica che accompagnano la slide segnano il tempo di un ritmo tribale, lo sciamano può compiere così il suo rito ancestrale e un busker solitario suona circondato da architetture futuristiche. Il video girato a Milano dal fotografo Gianni Lo Giudice per The Shaman rende perfettamente l’idea centrale del lavoro di Gianluca Fasteni, in arte G-Fast: unire antico e moderno, tradizione e innovazione, innestare nella matrice del blues loop di percussioni ipnotici e una discreta dose di elettronica. 


Per incidere Dancing with the freaks il chitarrista milanese ha usato mezzi semplicissimi e una tecnica di registrazione altrettanto essenziale. Due strumenti economici, una Eko e una Meazzi, entrambe degli anni 60, sono le uniche due chitarre suonate nel disco, equipaggiate con tre corde, come fossero le cigar-box guitar usate dai primi musicisti neri, che costruivano con mezzi di fortuna i loro strumenti, il cui corpo era spesso costituito da scatole di sigari riadattate per l’occasione. Scardinare uno schema ormai classico come quello del blues non è semplice e trovare una chiave di lettura nuova e personale richiede molta fantasia e creatività e il nostro ci riesce con grande abilità. L’audacia della sperimentazione sonora non manca certamente a G-Fast e a testimoniarlo sono nove tracce che si impongono da subito per il ritmo incalzante e la grande energia trasfusa.
Apre le danze (è proprio il caso di dirlo) Come this way in cui le pulsazioni di basso e batteria (in realtà il basso è una delle due chitarre opportunamente trattata) e il riff poderoso della chitarra fanno da contraltare al gran lavoro alla slide e al vocione graffiante e potente di Fasteni. SeguonoThe DJ is dead, batteria ossessiva e chitarra ritmica tagliente cui si sovrappone la voce corrosiva e distorta, e The Shaman, una danza tribale ipnotica, in cui il suono della slide unito ad un canto indiano crea un effetto davvero particolare dall’atmosfera evocativa. Sulla stessa falsariga Dancing with the freaks e Black rain in cui gli stilemi del blues acustico si fondono con voci distorte e sonorità dissonanti. Si calmano le acque con When I go home, la slide sempre in evidenza in una ballata dall’incedere lento dal sapore desertico e polveroso, mentre The monkey funk, sintomatico il titolo, rimescola un’altra volta le carte in tavola con una ritmica black. La sorpresa arriva con Shout, sì proprio quella dei Tears for Fears, che le sonorità trasversali delle percussioni e l’uso dell’elettronica abbinata alla solita slide trasfigura in una danza primitiva. Il rituale shamanico si chiude con Tomorrow, lenta, evocativa, psichedelica, ipnotica.
Dancing with the freaks è in definitiva un lavoro convincente sia per la sua originalità che per la bravura di G-Fast, un chitarrista molto valido tecnicamente e dotato di un notevole talento compositivo. Nella registrazione del disco fa praticamente tutto da solo, tranne che per l’aiuto di alcuni ospiti. Stefano Tessadri, cantautore milanese con cui Fasteni collabora da anni, è presente all’organo hammond in Tomorrow insieme a Cek Franceschetti, mentre Carmelo Genovese, anche lui chitarrista e bluesman, partecipa a Come this way. Insomma una proposta interessante, un buon biglietto da visita per fare conoscenza con il chitarrista milanese che riassume così il suo curriculum: “Tre corde e molto idee”.

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martedì 23 ottobre 2012

Matt Waldon – Oktober (Arkham Records – 2012)

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Se non sapessimo che il patavino Matteo Baldon, in arte Matt Waldon, è italianissimo, potremmo facilmente pensare che Oktober, la sua prima prova solista, sia opera di un musicista americano, che so, di Austin, TX, e non avremmo sbagliato di molto. Nella città della musica per antonomasia, almeno per quanto riguarda la miscela esplosiva generata dall’incrocio di folk, blues e country, ha ritrovato la sua patria ideale e ha avuto la soddisfazione di suonare al SXWX Festival, un traguardo importante nella sua carriera. Se per qualcuno nascere nella provincia italiana potrebbe essere un limite, non lo è stato certamente per Waldon che da sempre ha coltivato un grande amore per la musica americana, amore ereditato dal padre, la cui precoce scomparsa ha spinto il giovanissimo Matt ad imbracciare la chitarra per sconfiggere il dolore e i suoi fantasmi. The Minigtown, il suo primo gruppo, nasce inizialmente come cover band dei Cardinals di Ryan Adams, ma l’esigenza di comporre in completa autonomia la propria musica porta il nostro a pubblicare due album, cui segue un’intensa attività live, culminata nell’esibizione insieme al Neil Casal, songwriter di chiara fama (Cardinals e Chris Robinson Brotherhood) e chitarrista sopraffino. Nel 2011 il tempo è maturo per fare tutto da solo: a marzo esce Amnesia un EP di cinque brani acustici, proprio quelli che porterà in concerto ad Austin! Con l’uscita di Oktober il cerchio si chiude e viene portata a compimento l’esperienza accumulata negli anni di formazione.



Sono le atmosfere autunnali, come fa presagire il titolo, a pervadere il disco in un continuo susseguirsi di chiaroscuri, di ballate acustiche dalle tinte folk che si alternano tra reminiscenze country dai toni malinconici e introspettivi ed episodi elettrici in cui l’indole rock da libero sfogo a chitarre acide e graffianti che rimandano alla stagione del Paisley Underground di Dream Syndicate e Green on Red. Uscito negli ultimi scampoli d’estate, sarà sicuramente un buon compagno nelle serate invernali riscaldate da un buon bicchiere di whiskey! Una ricetta semplice ma gustosa quella preparata da Matt Waldon, il cui talento di songwriter si sviluppa in dieci brani di pregevole fattura. Le note solitarie di un banjo aprono lo strumentale Like a secret, premessa della scoppiettante Dirty Roads le cui radici country sono contaminate da un’armonica fulminate e dalla chitarra che insegue il piano in una veloce ballata convincente e accattivante. Il piano è invece protagonista in I know, dalla melodia avvolgente, riscaldata dalla voce della francese Paoloma Gil, che duetta con Waldon con molta grazia e rende palpabile l’emozione di ascoltare “the rain on my heart“. Non è l’unica ospite invitata a partecipare alle registrazioni, effettuate all’Arkham Studio di Rovigo; sono presenti nomi importanti della scena Americana, a partire da Caitlin Cary (violinista dei Whiskeytown, altra band di Ryan Adams), al newyorkese Kevin Salem e il nostrano Cesare Carugi (anche lui autore quest’anno di un album scritto con l’America nel cuore). Proprio il brano che da il titolo all’album, con Carugi ai cori, è uno degli episodi più belli, un folk rock intrigante impreziosito dal violino della Cary, un gioiellino nella sua linearità. Il rumore di un temporale fa da sfondo a Sad Song, il pezzo più trascinante del disco, cantata insieme a Salem, che si lancia in un’eccellente prestazione alla chitarra, ritmo energico che non fa rimpiangere i migliori Dream Syndicate. La conclusione è affidata alla splendida ballata I will, deliziosa folk song magica e sognante, abbellita dalle evoluzioni del violino e dalle voce armoniosa della Gil.
La pubblicazione di Oktober, interamente scritto e prodotto da Matt Waldon, curato fin nei minimi particolari, fa entrare di diritto l’autore nel novero di quegli artisti italiani che, senza timori reverenziali, sanno interpretare in maniera personale e con ottimi risultati il rock d’oltreoceano. Anche se probabilmente destinato a rimanere un prodotto di nicchia, il roots-rock  o alt-country che dir si voglia, in Italia è ormai una realtà e opere come questa fanno ben sperare nel futuro. A Waldon va quindi il plauso per aver realizzato un album maturo, omogeneo nelle sonorità, ben suonato e registrato, molto gradevole all’ascolto che di certo soddisferà i palati più esigenti. 


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lunedì 8 ottobre 2012

Ry Cooder - Election Special (Nonesuch Records - 2012)

Il modo in cui una persona tratta il suo cane può dire molto di lei. Su questa asserzione si basa Mutt Romney Blues, il brano che apre disco, che narra di come quel bastardo (questo il significato della storpiatura del nome) di Mitt Romney, candidato repubblicano alle elezioni presidenziali americane, abbia legato il suo cane al tetto di un’automobile, neanche fosse un sacco di patate, e si sia messo in viaggio. Non è giusto, si lamenta il cane, ma quel mutt non sente ragioni. Non usa mezzi termini, l’attacco è molto esplicito e diretto, ed è solo il primo di una serie di invettive e denunce che Ry Cooder muove all’establishment spinto da una grande passione civile. Election Special, pubblicato in piena campagna elettorale, suona come un campanello d’allarme per richiamare l’attenzione su temi di scottante attualità come lo strapotere della finanza, la vergogna di Guantanamo e una guerra che non sembra avere fine. “They promised war was done but peace didn’t declare” canta in The 90 and the 9, un dialogo serrato tra padre e figlio che si interrogano sulla necessità di fare delle scelte, di intervenire in prima persona per cercare di cambiare lo stato delle cose. I said honey you ain’t read your little history book, better dust it off and take another look, if the Democrats don’t make it then I’ll have myself to blame, if we don’t raise some sand then our votes might sleep away” .

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lunedì 10 settembre 2012

Il Disordine Delle Cose - Live al Circolo Magnolia - Milano 26 Agosto 2012


I novaresi Il Disordine delle Cose sono una delle realtà più interessanti della scena indipendente italiana, con due album all’attivo, l’esordio omonimo del 2009 e il recente La Giostra, pubblicato all’inizio dell’anno. Il primo disco è stato una bella sorpresa, che ha colpito per la freschezza e l’originalità della proposta. Aiutati dai piemontesi Perturbazione con la partecipazione di Carmelo Pipitone  dei Marta sui Tubi, di Marco Notari, Paolo Benvegnù e Syria, realizzano un’opera dai suoni molto eleganti e curati, in cui la vena cantautorale è declinata tra raffinatezze pop e rock intimista e riflessivo. La Giostra invece, registrato in Islanda negli studi dei Sigur Ros, testimonia il notevole salto di qualità compiuto dal gruppo, che rivela, con grande padronanza espressiva, la capacità di comporre ottime canzoni e di arrangiarle sapientemente in una miscela sonora avvincente. 




venerdì 31 agosto 2012

Fabrizio Poggi - Harpway 61 (The Blues Foundation - 2012)


Devo ammettere di non essere mai stato un appassionato di geografia e di non aver mai provato alcun interesse in aridi elenchi di numeri e capitali. Così purtroppo mi è stata insegnata a scuola e di certo mi è mancato l’insegnante giusto che sapesse coinvolgermi in una materia che può invece rivelarsi interessante. Le occasioni per rimediare però si presentano inaspettate, come Harpway 61, il nuovo album di Fabrizio Poggi. Vi starete domandando: cosa c’entra la geografia con un disco di blues? Invece c’entra, perché i titoli dei quattordici brani sono i nomi di altrettante città americane che hanno visto nascere o affermarsi i migliori armonicisti blues in circolazione. D’obbligo il riferimento alla famosa Highway 61, l’autostrada che unisce New Orleans a Chicago, conosciuta dagli appassionati come Blues Highway, così chiamata perché segna le tappe iniziali del percorso intrapreso dai musicisti neri durante il viaggio che dal delta del Mississippi li ha portati verso il nord. La Harpway 61 è quindi la nuova autostrada del blues, dedicata all’armonica e ai suoi eroi; non resta che partire e seguire le indicazioni del navigatore, un Fabrizio Poggi particolarmente ispirato che ci guida con grande talento lungo un tragitto davvero emozionante.






martedì 28 agosto 2012

Dimartino - Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile (Picicca Dischi - 2012)


Ci sono dischi di cui ti innamori già dal primo ascolto. E’ successo così con il nuovo album di Antonio Di Martino, in arte Dimartino, che fin dal titolo, bello e coraggioso nella sua lunghezza, incuriosisce parecchio. In un periodo in cui la musica viene definita liquida, togliendole così spessore ed importanza, imbattersi in dischi come questo è insieme una fortuna e un piacere. Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile è un lavoro tanto godibile per le qualità musicali quanto profondo e intenso nei contenuti. Il trentenne autore palermitano, giunto alla seconda prova solista, rivela una notevole vena cantautorale che lo impone come uno dei musicisti più dotati nell’attuale panorama italiano. La copertina, decisamente surreale, che lo ritrae seduto accanto ad un valigione con le nuvole a fare da sfondo, fa presagire un viaggio di cui non si conosce ancora la meta. Non resta quindi che inserire il cd nel lettore e partire. 

Non siamo gli alberi, il primo brano, inizia quasi in sordina: “io odio immensamente le ferrovie dello stato, perché è li che ci lasciamo quattro volte al mese” recita la voce sola, poi si aggiungono chitarra e pianoforte e il mood  è decisamente anni settanta. Tutto l’album si gioca su sonorità retrò che rimandano al periodo d’oro della musica d’autore italiana. Nel caso di Dimartino la definizione di cantautore, spesso usata a sproposito, calza davvero a pennello. Unire testi riflessivi ed intensi, intrisi a tratti di un’ironia tagliente ed amara, a melodie di gran gusto, è una capacità che dimostra il grande talento compositivo del nostro e la raggiunta maturità stilistica dell’artista. L’insieme degli undici brani è un quadro a volte spietato dell’Italia di oggi, descritta attraverso i sentimenti e le disillusioni di chi, pur essendo ancora giovanissimo, ha già avuto modo di vedere tradita qualche speranza. Emblematico il caso di Non ho più voglia d’imparare: sentire cantare “tienitela tu l’università, la burocrazia, il socialismo nelle dispense di un massone…non ho più voglia di capire, ne di sapere niente, tanto a cosa mi serve”  fa un certo effetto. Sulla stessa linea Venga il tuo regno, un crudo ritratto della nostra società, che ha svenduto valori e speranze, dove “i laureati aspettano di lavorare, i lavoratori aspettano di morire” ; un gran vuoto, difficile da colmare, che il sarcasmo cerca di alleviare con “venga il tuo regno, venga pure babbo natale, vengano gli uomini neri pescati morti dal mare”. Con altrettanta bravura Dimartino sa descrivere i sentimenti, le gioie e i dolori dei rapporti umani e li ritrae con grande fantasia e padronanza linguistica. Amore sociale, Maledetto autunno e Piccoli peccati sono preziosi quadretti dipinti con maestria, che una minuziosa descrizione della quotidianità arricchisce di particolari.

"Mentre guardavamo il divo sul manifesto del detersivo
pensavamo a Monicelli che vola dal balcone
alla faccia della moda che ci vuole tutti giovani e belli
alla faccia dell'Italia che ci vuole vivi e basta"

Prodotto dall’amico Dario Brunori (anche lui cantautore) il disco vede la partecipazione di Simona Norato al pianoforte e alle tastiere, e di Giusto Correnti alle percussioni, due musicisti di assoluto valore che, con la loro bravura, aiutano il nostro autore a realizzare un’opera davvero di qualità. Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile è un deciso passo in avanti rispetto a Cara maestra abbiamo perso, il già molto interessante esordio di due anni fa, che forse mancava solo di una direzione precisa e appariva ancora una raccolta di brani a compendio di influenze diverse. Ciò che ora invece colpisce molto favorevolmente è l’omogeneità stilistica dell’album che indica l’avvenuto processo di maturazione dell’artista. Naturalmente i rimandi ci sono e sono evidenti, Francesco De Gregori, Lucio Dalla e Ivan Graziani sono i primi nomi a venire alla mente, ma Dimartino riesce ad elaborare con assoluta originalità e personalità le proprie fonti d’ispirazione. Lui che canta di non avere più voglia di imparare, dimostra invece di avere non solo appreso molto bene la lezione, ma di sapere padroneggiare con estrema sicurezza la materia. 


Articolo pubblicato su REvolution Rock,
la webzine di Diavoletto Netlabel

lunedì 13 agosto 2012

Graziano Romani - Concerto del 9 agosto 2012 - Chiringuito - Spalti di San Michele - Bergamo Alta

Da qualche tempo non assistevo ad un concerto di Graziano Romani e per di più ero molto curioso di ascoltare dal vivo i brani del suo ultimo disco dedicato all’eroe dei fumetti. La data di Bergamo del My Name Is Tex Tour è capitata quindi a puntino in una calda sera d’agosto, già in clima di ferie, l’atmosfera ideale per godersi della buona musica e bere una birra fresca. Arrivo al Chiringuito, il locale all’aperto sugli Spalti di San Michele nella città alta, appena in tempo per fare quattro chiacchiere con gli altri Spiriti Liberi (i fan del rocker emiliano) già sul posto e accomodarmi in prima fila. Vestito di nero con un altrettanto nero Stetson calato sul capo, Graziano sale sul palco in perfetto orario, imbraccia la chitarra, da un cenno alla band e lo show comincia. Come previsto, l’inizio è affidato ai nuovi pezzi, My Name Is Tex, Goldeena, Carson e il traditional Red River Valley, mentre dal precedente Zagor King Of Darkwood vengono ripescate Guitar Jim e Darkwwod. L’esecuzione della formazione a quattro è grintosa e veloce, il suono decisamente chitarristico, spiccatamente country-rock, che l’assenza dell’elettrica vira verso il folk più energico e scoppiettante. Se gli arrangiamenti del disco possono contare su sfumature più ampie, impreziositi come sono dalla presenza di violino, dobro e accordion, dal vivo si apprezza invece la compattezza e l’energia del combo.

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il video ufficiale di My Name Is Tex


il sito ufficiale http://www.grazianoromani.it/
il sito del fan club http://www.grazianoland.net/

mercoledì 25 luglio 2012

Patti Smith - Festival di Villa Arconati - 23 Luglio 2012

Foto di Alessia Interlandi
http://www.flickr.com/photos/alessiainterlandi/7635251592/


L’altra sera ho provato una grande emozione, consapevole di aver assistito ad un avvenimento che ricorderò a lungo. Patti Smith, attualmente in tournèe in Italia per promuovere il nuovissimo Banga, ha tenuto a Bollate uno strepitoso concerto.  Il disco, pubblicato agli inizi di giugno, mi è piaciuto moltissimo, anzi lo considero una delle uscite più belle e importanti dell’anno, un lavoro affascinante non solo per le sue qualità musicali, ma anche per la ricchezza degli innumerevoli spunti letterari e poetici che offre all’ascolto. Con grande curiosità ho atteso quindi la data milanese cogliendo al volo la ghiotta opportunità offerta dal Festival di Villa Arconati di vedere dal vivo un’autentica icona del rock. L’aspettativa per quello che da subito si è preannunciato un evento è stata ampiamente ripagata dall’artista che, in gran forma, ha dimostrato ancora una volta di possedere classe e talento straordinari, un personaggio dal carisma davvero unico!

La band sale sul palco quasi in orario e attacca con Redondo Beach e Dancing Barefoot, un ottimo inizio con due brani trainanti e coinvolgenti che hanno il potere di sciogliere subito il pubblico. La Smith è rilassata e sorridente, la sua voce ancora intonatissima e potente, per nulla intaccata dagli anni, dal timbro inconfondibile. Arrivano subito le canzoni nuove: April Fool  ha un ritornello accattivante e orecchiabile e Fuji-san, che ricorda il terremoto in Giappone, è una preghiera così intensa da mettere i brividi. This Is The Girl, composta in memoria di Amy Winehouse, di cui ricorre l’anniversario della morte, segna un momento molto toccante; non succede infatti così spesso che ad un concerto rock cali improvvisamente il silenzio, ma quando capita è un momento magico e Patti, emozionata, può sussurrare la sua dedica. Segue, forse non a caso, Ghost Dance tratta da Easter e quando tutti insieme cantiamo we shall live again l’emozione è palpabile. Ancora un paio di brani e sale alla ribalta Lenny Kaye, il fidato chitarrista dal look impeccabile, che propone un medley di brani da Nuggets (seminale compilation di garage band pubblicata nel 1972) tirati ed energici, spettacolo nello spettacolo.

Rientra subito la Smith e siamo nel cuore del concerto, scorrono We Three, Nine, Pissing In A River per arrivare ad uno dei momenti più attesi, una Because The Night sicuramente diversa dalla versione di Bruce Springsteen, ma non meno efficace, impossibile non cantarla a squarciagola insieme a chi l’ha resa famosa! People Have The Power, altro anthem, è resa in versione parlata mentre Gloria, degli Them, è impetuosa, ormai tutto il pubblico canta e balla, non si può restare fermi. Il concerto finisce qui, ma la platea reclama, manca ancora qualcosa, e così il Patti Smith Group torna sul palco per l’encore conclusivo. L’insistenza di uno spettatore viene premiata da un verso di Kimberly cantato a cappella cui segue Banga, bella e potente che on stage guadagna in intensità. Il finale è affidato a Rock’N’Roll Nigger, travolgente con la Smith che urla tutta la sua rabbia e, imbracciata una fender, si produce in un vulcanico assolo e all’urlo di outside of society termina la canzone letteralmente strappando le corde della chitarra. Dopo quasi due ore trascorse velocissime la conclusione arriva veramente, resta solo il tempo dei saluti. Ci avviamo all’uscita soddisfatti, contenti per una serata dove ogni cosa è andata alla perfezione e l’ottima acustica ha permesso a tutti di goderne nel migliore dei modi.

A Villa Arconati si è fermato un pezzo importante della storia della nostra musica e Patti Smith, con una grinta davvero invidiabile, ha impartito ai presenti una grande lezione di rock. Divisa tra ballate intense e raffinate, pezzi potenti e tirati e un finale al fulmicotone, la band ha suonato sempre ad alto livello, senza sbavature. Quindi bravi tutti, a partire naturalmente da Lenny Kaye, efficacissimi nell’accompagnare una grandissima Patti Smith



sabato 14 luglio 2012

Vinicio Capossela - Rebetiko Gymnastas

Articolo pubblicato su REvolution Rock, 
la webzine di Diavoletto Netlabel 
http://issuu.com/diavolettolabel/docs/re8
http://www.diavolettolabel.com/revolution.html

Musiche di porto e d’assenza che da tempo attendevano l’approdo! Rientra il navigante, dopo aver affrontato mari omerici, balene, ciclopi e polpi innamorati, dopo essere sfuggito all’incanto delle sirene. A conclusione delle peregrinazioni marinaresche ecco il porto, la Taverna Tsozzos, dove si apre il girone dei rebetici.

Attendevo da tempo Rebetiko Gymnastas, da quando cinque anni fa ho saputo che il disco era stato registrato ad Atene, e finalmente il momento della sua pubblicazione è arrivato. L’amore per la musica greca di Vinicio Capossela ha radice lontane, il primo segnale nella sua opera risale infatti a Canzoni a Manovella, l’album che conteneva Contratto per Karelias, brano dal testo originale arrangiato sulla musica di Markos Vamvakaris, uno dei padri del rebetico. Nel suo romanzo Non si muore tutte le mattine l’autore stesso racconta in un paio di capitoli l’incontro folgorante con questa musica, parole da rileggere con attenzione per entrare nella giusta atmosfera e prepararsi all’ascolto del disco. Il rebetico, che in greco significa ribelle, è nato negli anni venti in seguito all’allontanamento dei greci dall’Asia Minore, una delle tante diaspore del secolo scorso, che ha lasciato segni profondi nei rifugiati e alimenta nostalgia e rimpianto per ciò che si è perduto e non si riavrà mai più. Come il blues, il fado portoghese e la morna capoverdiana, è musica intrisa di malinconia, che nasce dal dolore, il cui esercizio (da qui i ginnasti cui allude il titolo) aiuta a vivere, a manifestare la propria identità attraverso la ribellione dell’anticonformismo al tempo presente.

Ancora una volta veniamo sorpresi da una straordinaria prova d’artista, nella quale convergono le tante esperienze dell’autore che si è confrontato spesso con altre culture e le ha sapute amare e metabolizzare con estrema sensibilità. Le sue opere, sempre migliori e diverse una dall’altra, si sono costantemente arricchite in questi scambi e testimoniano la creatività dirompente di un autore in continua evoluzione, che non si stanca di esplorare e conoscere, davvero unico nell’attuale panorama italiano. Ecco quindi Rebetiko Gymnastas, non una sterile operazione folkloristica, ma il mondo di Capossela interpretato e rivisto insieme ad un manipolo di ottimi musicisti greci, non un disco di rebetico, ma suonato da musicisti rebetici. Forse una distinzione sottile, ma che rende perfettamente l’idea! Come definire altrimenti un lavoro il cui nucleo principale è costituito da nove brani pescati dal repertorio di Vinicio e solamente uno dei quattro inediti è di un autore greco? 

Aiutano il nostro un paio musicisti storici del clan caposseliano, Alessandro “Asso” Stefana alla chitarra e Glauco Zuppiroli al contrabbasso, affiancati dai bravissimi Ntinos Chatziiordanou alla fisarmonica, Socratis Ganiaris alle percussioni, Manolis Pappos al bouzouki e Vassilis Massalas al baglama. In questa nuova veste le composizioni che già conosciamo traggono ulteriore linfa vitale e la diversa prospettiva le rende ancora più belle ed interessanti. Con una rosa, impreziosita dal violino di Mauro Pagani ed una fisarmonica assassina si trasforma in elliniko baion, Non è l’amore che va via, dall’incedere lento e malinconico, è ancora più struggente. Morna è una stretta al cuore, “tanto qui c’è soltanto vento e parole di allora”, ospite la chitarra portoguesa di Riccardo Pereira. Eccezionali gli inediti, a cominciare da Canción de las simples cosasresa famosa dall’argentina Mercedes Sosa e Abbandonato (Los ejes de mi carreta) di un altro autore argentino Atahualpa Yupanqui entrambe dal testo tradotto in italiano da Capossela. Non finisce qui, perché c’è spazio anche per Gimnastika del poeta russo Vladimir Vysotskij e Misirlou, di cui ricordiamo la versione strumentale in Pulp Fiction, che ospita Kaiti Ntali alla voce, canzone del repertorio popolare greco. Manifesto del disco è Rebetiko you stupendo esercizio di stile cui partecipa, ospite alla chitarra, il grande Marc Ribot.

“Fatevi più stretti attorno
Questa sera non mi basta il mondo
Tornano i miei passi in coro
Nel cerchio del rebetiko da solo
Come una parata
Come in un addio
Questo ballo è solo il mio”

Rebetiko Gymnastas è davvero entusiasmante e nonostante raccolga influenze di vario genere, è assolutamente omogeneo nel risultato e piacevolissimo all’ascolto. Se il precedente Marinai, profeti e balene poteva essere considerato in parte un po’ eccessivo e  impegnativo (d'altronde trattava temi sovra-umani), qui funziona tutto alla perfezione. L’abilità di Vinicio Capossela e dei suoi bravissimi compagni d’avventura è quella di aver reso gradevole e accessibile un’operazione di altissimo valore culturale. Solamente il Maestro poteva permettersi un così caloroso e personale omaggio al mondo greco che, lo ricordiamo, giunge in un momento storico molto particolare per la culla del mondo occidentale. Dimentichiamo quindi per un attimo la musica anglo-americana, di cui sappiamo già tutto, e immergiamoci nel mediterraneo, accompagnati da questo straordinario album, rapiti da una musica che parla al cuore, racconta di noi e della nostra identità!






giovedì 12 luglio 2012

Erykah Badu - Festival di Villa Arconati - 7 luglio 2012


Serata davvero piacevole quella che si è tenuta sabato scorso a Villa Arconati in occasione del concerto di Erykah Badu. L’artista americana ha fatto tappa con il suo tour nel salotto buono delle estati milanesi ed è stata accolta con grande entusiasmo dal pubblico che nel corso dello spettacolo è stato ampiamente ricompensato del suo calore.
Come ogni diva che si rispetti, Erykah si è fatta attendere, lasciando il compito di intrattenere i presenti ad alcuni brani di un dj-set seguiti dalle improvvisazioni di batterista e percussionista, forse un po’ troppo lunghe e compiacenti, ma che comunque hanno scaldato la platea. Impeccabile l’entrata della Badu, elegantissima in pseudo impermeabile-sahariana chiaro, tacchi alti e cappellino a coprire la foltissima chioma. Così inquadrato, lo sguardo magnetico della cantante ha subito incantato e le è bastato poco per calamitare l’attenzione su di se. L’ordine voluto dagli organizzatori è saltato subito, nessuno ha saputo resistere al richiamo di avvicinarsi al palco, come del resto deve succedere in ogni concerto che si rispetti, tutti in piedi a ballare e a godersi la musica. Tutti tranne un accanito signore, che forse non capiva a cosa stava partecipando e si è ostinato a restare seduto contemplando tutto il tempo le terga dei partecipanti!

mercoledì 20 giugno 2012

Warren Haynes Band - Live At The Moody Theater


Esattamente un anno fa l’uscita di Man In Motion  aveva segnato una svolta nella produzione di Warren Haynes che, allontanandosi sia dal power-rock granitico dei Gov’T Mule che dal tipico suono targato Allman Brothers, si era lasciato ispirare dalla passione giovanile per il R&B di marca Stax, stemperando in abbondanti dosi di soul il rock-blues caratteristico del suo stile. Il risultato è stato uno splendido disco in cui il chitarrista, attorniato da una solida sezione ritmica di estrazione funky, i fiati dei Grooveline Horns e il sassofono free di Ron Holloway, ha dato prova di grande bravura nell’ampliare l’orizzonte della propria musica, battendo territori per lui ancora inesplorati. L’esecuzione  dal vivo di questo materiale è ancora più entusiasmante, infatti in questa dimensione, a lui particolarmente congeniale, Haynes offre il meglio di sé dando libero sfogo alla creatività nello sfoderare tutta la sua strabiliante abilità strumentale. La testimonianza diretta di tutto ciò è Live At The Moody Theater che ci da la possibilità di godere dell’intero concerto tenuto lo scorso novembre ad Austin (Tx) dalla Warren Haynes Band. La confezione, peraltro molto bella, corredata da alcune splendide fotografie che ritraggono il nostro finalmente sorridente, racchiude due cd ed un dvd per oltre tre ore di musica che faranno gioire occhi ed orecchie di tutti gli appassionati. 

domenica 10 giugno 2012

Bruce Springsteen - Stadio San Siro - Milano 7 Giugno 2012


ALCUNE RIFLESSIONI SUL CONCERTO DELLA VITA




Commentare a caldo quanto avvenuto a Milano, prima tappa italiana della tournée, senza farti prendere dall’entusiasmo, con l’adrenalina a mille, stremato e ancora in balia delle fortissime emozioni provate, è un’impresa quasi impossibile. Ti rendi conto che se anche vorresti essere il più obbiettivo possibile, non puoi analizzarlo razionalmente ed è difficile affidare alle parole il racconto di ciò che hai vissuto e che ti è rimasto dentro senza l’uso indiscriminato di una lunga serie di superlativi. Quando hai la fortuna di imbatterti in serate come questa, in cui in realtà non si è tenuto semplicemente un concerto rock ma un vero e proprio rito sacro, celebrato con tanto di officiante e adepti in delirio, riesci solo a dire di aver assistito ad un evento unico e irripetibile,  il cui ricordo indelebile ti accompagnerà per tutto il resto della vita.
Quello di San Siro è stato uno show folgorante, una festa che sembrava non avere fine, 3h40’ di musica ininterrotta , senza una pausa, un lunghissimo singolo encore composto da 33 canzoni che Bruce ha suonato con grinta ed energia senza pari, come se fosse l’ultima occasione rimasta per evocare lo spirito e infiammare l’anima dei suoi fans. Alcuni momenti sono stati magici, come l’intensissima Jack Of All Trades o quando si è seduto al piano e ha intonato le note di The Promise regalandoci una delle sue storie più belle e noi siamo rimasti tutti senza fiato, rapiti da un’interpretazione straordinaria. 

mercoledì 6 giugno 2012

Sakee Sed - A Piedi Nubi


L’esordio di un paio d’anni fa di Alle Basi Della Roncola ci aveva stupito e impressionato per la miscela sgangherata di elementi vintage che dalla provincia bergamasca proiettava i Sakee Sed in quell’immaginario saloon dove si incrociano country, blues e folk e un pianista honky-tonk  in preda all’alcool racconta le sue storie stralunate. Un disco dall’impianto sonoro decisamente particolare, dove la roots-music di derivazione americana si sposa al cantautorato italiano e i testi surreali e straniti completano il quadro un po’ folle dell’opera. Il sound elettrico e allucinato, a tratti sperimentale, dell’EP Bacco, pubblicato nel 2011, segna già un mutamento di rotta, ma è con A Piedi Nubi, appena pubblicato, che la svolta è decisiva. Il duo bergamasco abbandona infatti il pianoforte Howard e tutti gli strumenti acustici usati nel primo disco per lanciarsi in un rock tirato e psichedelico (da loro definito pshyco-pop) i cui ricercati passaggi strumentali infarciti di Rhodes e Farfisa e l’uso particolare della voce ricordano il progressive e le sue sperimentazioni elettroniche. Una scelta sicuramente coraggiosa che testimonia il passo in avanti compiuto da Marco Ghezzi e Gianluca Perucchini alla ricerca di soluzioni sonore originali all’interno del movimento indie italiano.





domenica 3 giugno 2012

The Weight - Tributo italiano a Levon Helm



Il 19 aprile scorso dopo una lunga lotta contro il cancro, muore il grande Levon Helm, compianto membro della Band, una delle personalità più importanti del mondo del rock che con la sua voce, oltre che con il suo drumming, ha reso immortali capolavori come  The Weight o The Night They Drove Old Dixie Down.


Appresa la notizia, un gruppo di musicisti italiani rende omaggio alla sua memoria con un tributo, una cover collettiva che coinvolge quanti hanno voluto eseguire dal vivo proprio The Weight e hanno spedito la registrazione a Riccardo Maccabruni, ideatore del progetto. 
L'iniziativa è davvero lodevole e ci permette di vedere in azione alcuni tra i migliori musicisti italiani che con grande cuore danno un'interpretazione molto sentita e intensa della canzone.
Ecco, in ordine sparso, Chemako, Matt Waldon, Cesare Carugi, Fabrizio Poggi (insieme a un forse inconsapevole Greg Trooper), Marcello Bettaglio con lo stesso Riccardo Maccabruni, Francesco Piu e Double Whiskey. Inoltre, mentre leggerete i titoli di coda, potrete ascoltare la bella versione della Down Town Blues Band
Complimenti quindi a tutti i partecipanti che con questo bel video ci permettono di ricordare al meglio il mitico Levon!


Link al progetto:


Levon Helm Italian Fan Page


Evento Facebook Cover Collettiva





martedì 29 maggio 2012

John Strada & The Wild Innocents - Live In Rock’a

Agli amanti del rock blue-collar, fatto di sudore e tanta passione, Live In Rock’a piacerà sicuramente. John Strada fa parte di quella generazione di musicisti che, come Ligabue e Graziano Romani fino ai più giovani Miami & The Groovers, hanno saputo inseguire il loro sogno con tenacia e convinzione, incarnando nella periferia emiliana il mito americano di un rock energico e passionale, sincero e genuino. Nella terra del sangiovese e del gnocco fritto può capitare di perdersi nel nebbione e incontrare Elvis che ti dice che non avrai mai successo nella musica, ma sarai costretto a provarci tutta la vita. In questo simpatico siparietto, utilizzato per presentare la band, sono riassunti i vent’anni di carriera che Strada ha alle spalle, fatti soprattutto di concerti dal vivo, dimensione in cui il rocker da il meglio di se.


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domenica 27 maggio 2012

Alabama Shakes - Boys & Girls

Stupefacente esordio quello degli Alabama Shakes, il gruppo di quattro ventenni di Athens, Alabama, che si rivela una delle novità più interessanti dell’anno. I ragazzi provengono dal sud degli States, terra di blues e southern soul, dove l’unione tra il rock e la black music ha prodotto spesso risultati straordinari. Il Muscle Shoals Sound Studio non dista molto da casa loro e il classico suono Stax è nato da quelle parti. Facile quindi pensare che respirando quest’aria ci siano le premesse per poter suonare buona musica. Dopo l’ EP pubblicato lo scorso anno ed esaurito in brevissimo tempo, si è molto parlato di loro e si è creata un’aspettativa che Boys & Girls non tradisce assolutamente.


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mercoledì 18 aprile 2012

Chemako - Chemako

Opera prima per i neonati Chemako, band formata da Gianfranco “French” Scala alla chitarra, Roberto Re al basso e Stefano Bertolotti alla batteria. I tre musicisti pavesi esordiscono in proprio solo ora, ma hanno alle spalle una carriera ventennale che li ha visti tra i protagonisti della scena blues italiana. Li ricordiamo infatti sia per la lunga militanza nei Chicken Mambo di Fabrizio Poggi che per le tante collaborazioni, sia sul palco che su disco, con artisti di fama internazionale quali, tra gli altri,  Guy Davis, Flaco Jimenez ed Eric Bibb.


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