lunedì 15 aprile 2013

Intervista a Massimo Bubola - Gallarate, 2 Marzo 2013


Intervista realizzata per Just Kids (clicca qui per sfogliare la rivista)

La poesia e la bellezza potranno sconfiggere i tempi bui che
stiamo vivendo! Massimo Bubola ne è convinto. Nonostante
tutto. “In alto i cuori”, l’ultimo album del cantautore
veronese, punta il dito contro i mali che affliggono la società
e si chiude con un messaggio di speranza rivolto agli uomini di
buona volontà. Augura ai giovani di avere un po’ di infinito
negli occhi e dei buoni ricordi. Prima del concerto che ha tenuto al Teatro Condominio di Gallarate, Massimo ha accolto me e James Cook nel suo camerino, insieme ad una buona bottiglia di vino, e la musica è stata lo spunto per parlare anche di letteratura, sogni e ideali. Un incontro davvero stimolante con uno degli autori che sa meglio raccontare storie in forma di canzoni...


“In alto i cuori” per tua stessa definizione
è un album di instant-songs. Una di esse
assume in questi giorni un’attualità e un
significato particolari. “Analogico-Digitale” è
scritta a quattro mani con Beppe Grillo, la persona
che ha raccolto e capito meglio degli altri
il forte disagio che stanno vivendo gli italiani.
Cosa ne pensi del suo exploit elettorale?

Abbiamo scritto alcune canzoni parecchi anni fa, poi questa l’ho ripresa perché mi piace molto. C’è un’evidente
contrapposizione tra il mondo contadino e quello
tecnologico -virtuale. In realtà lo scrittore di canzoni
sono io, con Grillo ho avuto dei colloqui esplicativi. Bisognerebbe
chiedere a coloro che non prevedevano
questa elezione. Senz’altro l’Italia è un paese molto
impoverito sia culturalmente, che economicamente
ma, soprattutto, moralmente. Qui si accettano situazioni
che in qualsiasi altro stato civile non sarebbero tollerate. Siamo una nazione in cui si ruba troppo, soprattutto
nell’ambito della “cosa pubblica”, il che, è un
reato gravissimo.
Comunque, al di là fredde valutazioni politiche, abbiamo
scelto una ventata di pulizia ed onestà. Quando
parli di questo valore diventi di moda nel nostro paese.


L’album, pur denunciando con forza il male dei
nostri tempi, si chiude con un bellissimo messaggio
di speranza, un appello che ha i toni di
una preghiera. Quindi secondo te qualcosa si
può salvare di questi tempi?


Io ho una cultura storica, questo però è un paese dove
di storia si parla pochissimo. E’uno stato che si è formato
in maniera un po’ strana. Una parte (quella di
origine borbonica del regno delle due Sicilie) ha avuto
un percorso che arriva dal feudalesimo, con le baronie
e i duchi, che, nelle loro terre, facevano il bello e
il cattivo tempo. Poi c’è una porzione (dal nord Italia
alla Toscana) che ha avuto una crescita di tipo europeo,
attraverso la rivoluzione borghese. Corporazioni,
liberi comuni sotto l’egida imperiale, però legati all’europa,
al sacro romano impero.
Infine c’è una parte, legata al regno pontificio, che ha
fatto un po’ da cuscinetto tra queste due Italie. Una
nazione, la nostra, che si è composta in maniera subitanea
ma con storie e culture molto variegate...
Quelli che parlano di razze sono dei sottosviluppati
mentali, non è una questione di razze in questo paese,
ma di culture diverse e di rapporti differenti con il
governo centrale.
La repubblica veneta, ad esempio, era un’avanguardia,
funzionava bene, con un’oligarchia aristocratica.
Come la Lombardia, ha sempre mantenuto un buon
rapporto con lo stato, perché abituata ad osservare le
regole. C’è una parte d’Italia che non ha mai coltivato
questo buon rapporto, ma non per colpa sua. Ogni
cent’anni cambiavano i governanti e questi tendevano
essenzialmente a derubarli, più che a reinvestire…





“Al capolinea dei sogni” registra la disillusione
di una generazione che aveva sperato
che il mondo cambiasse e si scontra invece con
una realtà diversa. Cosa avrebbe potuto fare
di più per consegnare una società migliore ai
giovani?


Mentre inseguivamo le utopie, i sogni di cambiamento
della metà degli anni ’70, nel periodo in cui lavoravo
al mio primo disco e poi a “Rimini” (di Fabrizio De Andrè), sono morti in un breve spazio di tempo
due papi, la società, sinceramente, era abbastanza in
subbuglio. Era un momento in cui credevi che variassero
certi equilibri, che in realtà non sono cambiati.
Però eravamo persone che hanno creduto in certe
battaglie, condotte per ottenere un mondo più giusto.
Sarà anche utopia, se poi le battaglie le abbiamo perse,
però le abbiamo combattute! Non mi appartiene
la cultura dei vincenti, ho sempre sposato quella dei
perdenti. Da mio padre ai miei professori, io mi sento
molto più Ettore che Achille, non disprezzo i perdenti.
Poi si è creata la cultura del vip, mentre nel mondo
contadino meno dai nell’occhio meglio è (che è anche
la mia idea). In “Al capolinea dei sogni” parlo di una
persona che ha lottato ed ha “superato ogni giorno
una sconfitta in un paese di sciocchi”. In effetti, questo
è un paese che negli anni 80-90, con il dilagare di una
sottocultura televisiva si è molto impoverito, finendo
col considerare nemica la cultura.
Tutto quello che ha contenuto e spessore ha subito
emarginazioni. Basti pensare nella musica a Guccini, a
Dylan che, nelle radio network, non vengono trasmessi.
Noi subiamo una vera discriminazione in patria e
questo è molto grave, senza parlare della tv. Io credo
in questo paese perché sono convinto che la storia
viva di corsi e ricorsi. Quando nacque il movimento
francescano per esempio (parliamo del XII secolo),
era un momento storico molto grave, in cui si vendevano
le cariche religiose, c’era la simonia.






Qual è il tuo rapporto con il tempo che passa?
Hai ancora dei sogni?


I sogni non scadono come il latte e quindi, anche se
come studente sono fuori corso, come sognatore non
mi sento affatto di esserlo. Si vive di sogni e anche di
obiettivi, poi non è detto che uno li raggiunga sempre,
almeno io non ho quest’ambizione. Se segui un percorso
devi avere in mente un punto di arrivo, pur non
essendo detto che tu ce la faccia. Quando cammini in
montagna l’importante è sapere dove vuoi arrivare,
avere un ideale…


Lanci un duro attacco alla televisione, responsabile
dell’appiattimento morale e ideale dei
tempi che stiamo vivendo. Come poter restituire
“un po’ di infinito negli occhi” di chi (penso
soprattutto ai giovani) si è lasciato plagiare
e manipolare dai “finti profeti profondi”?


I ragazzi oggi subiscono una pressione da parte del
marketing che noi non abbiamo patito. Io ho una figlia di 18 anni. Lei si veste solo con quelle tre o quattro
marche, mentre io portavo le giacche e le scarpe di
mio cugino più grande. Noi non subivamo pressioni, ci
vestivamo come decideva mamma.
Questo a volte mi intristisce, ma bisogna reagire avendo
“un po’ di infinito negli occhi e dei buoni ricordi”.
Io li ho avuti e questo auguro anche alle nuove generazioni…





L’alternativa a questo appiattimento potrebbe essere
la rete? Dove ognuno può andare a cercarsi quello
che vuole?

Secondo me la rete funziona un po’ da passaparola,
è come andare in una grande piazza affollata con le
chiacchiere di tutti. Uuna volta c’erano i mercati. Io
penso che sia bello anche stare con se stessi, magari
leggendo un libro. Oggi si vive con la paura della solitudine.
La gente va nei centri commerciali, sempre con
il telefonino, terrorizzata dall’idea di rimanere sola.
Io penso che ci sia una buona alternativa: restare a
casa, buttarsi sul letto e leggersi un bel libro. Leggere
rimane ancora oggi il più forte esercizio mentale, la
più efficace ginnastica per il cuore, i sogni e l’intelletto.
La lettura è importante. La rete è l’aperitivo, a base di
un po’ di chiacchere e informazioni…

Cosa ne pensi di come viene proposta la musica
in tv, penso ai talent show…

Dei talent show non penso niente. Sono davvero
esterrefatto al pensiero che un ragazzo debba intraprendere
un percorso di quel genere. Una volta dalla
provincia andavi a suonare in città. Cercavi contatti e
l’ascolto da parte del direttore artistico di una casa
discografica come è capitato a me, a De Andrè, a tanti
altri. Costruire un artista in laboratorio è sempre una
cosa pericolosa. Se qualcuno suona dal vivo capisci
che impatto ha sulla gente, se è un buon trasmettitore,
se ha carisma. La discografia italiana, soprattutto
quella un po’ terzomondista, vuole costruire in laboratorio,
mentre nel mondo anglosassone muovono i loro
culi di pietra e vanno in giro a vedere la gente dal vivo,
la dimensione che permette di capire tante più cose.

Credo tu conosca molto bene Mauro Pagani.
Come valuti il suo apporto a Sanremo?

No, non ho visto niente di Sanremo, ho sempre lavorato
e, onestamente, non mi interessa molto. Sono
ambienti che non conosco, non so se lui ne aveva la
gestione totale…
Non posso giudicare dei colleghi, degli amici, la gente deve anche vivere, insomma fa le sue scelte. Io seguo
il motto evangelico: non giudicare per non essere giudicato.



Cosa ne pensi della attuale scena artistica in
italia?

Io non la conosco, onestamente, e non mi interessa.
So poco, se c’è qualcosa di interessante, magari mi
arriva o me la segnala qualcuno. Mi sembra che i ragazzi
debbano crescere con dei riferimenti, dei modelli.
Tanti pescano fuori, ma questo è fondamentalmente
un paese pop. Io ho creduto nella letteratura che è
quella del rock, che non è solo musica, penso a Sam
Peckinpah, a Paul Auster… Io ho scelto una corrente
artistica, come può essere il surrealismo, l’impressionismo.
Ho scelto quella che attingeva nella musica popolare,
nel folk, nel blues, le componenti più importanti
del rock. L’origine del folk è stata spesso europea,
(Irlanda, Scozia, Inghilterra), poi, con l’immigrazione,
si è creata una nuova poetica, è arrivato un po’ anche
quello di matrice italiana. Si è creata una sorta
di evoluzione, o meglio di nuova proposta. La parola
evoluzione per l’arte non la userei, l’arte non si può
evolvere. Credo che uno dei vantaggi della globalizzazione
sia che oggi puoi ascoltare un ragazzo scozzese,
irlandese o spagnolo come ascolti un italiano.
Sono stato in Messico a fare un disco con i Barnetti
Bros. Ricordo che lì a 12 anni suonano e a 14 anni
decidono: dal country, al rock, all’heavy metal scelgono
lo strumento più adatto per suonare il genere
che amano. Da noi funziona che si vendono molto le
chitarre generaliste con le quali fai benino un po’ tutto
e un po’ male ogni singola cosa. Io che sono un collezionista
so che ogni chitarra crea un tipo di musica
diversa. Qui non esiste questa cultura, togliamo Gallarate,
il Buscadero, Carù, nel resto d’Italia c’è poco…
Oggi fai tutto e niente allo stesso tempo, come un giocatore
di calcio che, ricoprendo tutti i ruoli, alla fine
non riesce bene in nulla. Ho cominciato suonando gli
Stones, i Deep Purple, i Led Zeppelin, gli Uriah Heep,
poi la mia musica si è evoluta. L’ultima tappa è il country.
Perfezione dei suoni, bilanciamenti, più in la non
puoi andare. Devi saper suonare, se non sei bravo si
vede subito, mentre con tanti altri generi puoi permetterti
di camuffare le tue qualità. Io faccio tex mex, faccio
folk, però il country... Anche la parte country degli
Stones (Faraway Eyes, Sweet Virginia) è rappresentata
da canzoni che, nel tempo, sono sempre più belle.



L’esperienza tex mex con i Chupadero a noi è piaciuta moltissimo… 



E’ un’esperienza americana fatta con due miei seguaci
italiani, due bravi cantautori.
Uno eccellente, ad esempio, è Massimiliano Larocca,
cantore e rocker che racconta molto bene delle storie.
Nei Chupadero ha scritto “Il brigante Tiburzi”, secondo
me un grande brano. Oggi sai c’è una differenza:
la parte narrativa siamo noi, che siamo in grado di
raccontare storie attraverso le canzoni. Rappresentiamo
un po’ gli eredi della poesia antica, quella che
risale ai tempi di Omero, in cui si cantavano le storie.
A volte ho tenuto dei seminari in università spiegando
ai ragazzi che quando inizi a scrivere devi riuscire a
ridurre. Ad esempio “Dino Campana” è un mio brano
in cui, da un romanzo di Sebastiano Vassalli di 160
pagine, ho prodotto sette strofe. E’ una super riduzione,
una sintesi. Poi la canzone ha una parte di non
detto talmente vasta che ognuno la riempie di se. Per
questo ci si affeziona alle canzoni, perché diventano
tue. Questa in realtà è una citazione di Borges, dice
che la letteratura breve ha molta parte di non detto,
quindi ognuno può utilizzare la sua immaginazione.

Soltanto la poesia può sconfiggere i tempi bui
con la bellezza?

La bellezza trionferà. Penso che ci sia negli uomini un
senso di armonia interiore, anche se la cultura televisiva
la sta cancellando. La bellezza è una specie di
etica, ciò che è bello è buono. Io ho cercato la bellezza
e credo che questo ti renda forte dentro. Non
ho mai inseguito il mercato o i facili contesti, non ho
mai leccato il culo a nessuno. Ci tengo a dirlo, perché
nella mia categoria siamo un’esile minoranza. Addirittura,
anche lavorando con De Andrè ho sempre litigato,
molto onestamente. La cultura del litigio e della
contrapposizione è importante. Oggi credo che l’unica
forma di amore e amicizia sia essere veri mantenendo
il coraggio di confrontarsi e parlarsi chiaramente.


Per quanto riguarda il brano e il video “hanno
sparato a un angelo” non hai avuto il timore
che qualcuno potesse accusarti di strumentalizzazione
per l’utilizzo di un fatto di cronaca
con al centro un bambino?

No, perché purtroppo non ne parla più nessuno. L’assassinio
è accaduto il 4 gennaio 2012, dopo il 15,
già si era smesso di parlarne. Anzi, dovrebbero darmi
una medaglia, perché, riagganciandomi al discorso
dell’epica, la canzone ha la forza del racconto collettivo
che al contempo salva la memoria, nei giornali la storia sarebbe già morta. Parlare della “strage degli
innocenti”, un mio tema ricorrente, (penso a “Un angelo
in meno“, sulla strage di Casalecchio sul Reno,
ma anche a “Il fiume Sand Creek” che tratta di un
massacro), mettere in primo piano i più deboli e anche
i femminicidi, ormai così frequenti, credo sia un
impegno civile. Oggi, anche la malavita in certi casi
non rispetta più le regole, una volta non uccideva i
bambini. In certi frangenti addirittura era l’ultima che
le rispettava, anche quando il mondo cosiddetto civile
ormai non lo faceva più. Abbiamo avuto un presidente
del consiglio, per 14 anni sugli ultimi venti, che giudica
normale fare apprezzamenti pesanti su una donna, sul
suo culo. L’unico presidente che si è permesso questo
ed altro, ad esempio racimolare fanciulle. Cose che
trent’anni fa erano impensabili. Penso a quella povera
donna, madre di famiglia, che subisce un mobbing
psicologico, un sopruso molto grave. Ma io non parlo
di politica, non sono né di destra né di sinistra, cerco
di guardare le cose dall’alto e da sotto. Se non vedi
da sotto non capisci, perché rischi di essere scollato
dalla realtà. Un’altra canzone che ho scritto in cui si
osserva dal punto di vista del più debole nella catena
sociale è “canto del servo pastore”: protagonista un
giovane che non ha nemmeno le sue pecore di proprietà.
Non avrà mai la possibilità in futuro di diventare
ricco, di sposarsi, di avere una casa. Lui vive emarginato,
fin dall’adolescenza, una vita che fa piangere
lacrime amare… [ ]

Intervista realizzata per Just Kids (clicca qui per sfogliare la rivista)